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Baby gang, teppisti e giovani fragili: Settimo ora fa i conti con il disagio

Prima gli atti vandalici, poi la caduta dal balcone di una adolescente

Baby gang, teppisti e giovani fragili: Settimo ora fa i conti con il disagio
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Ripetuti atti vandalici l’ultimo dei quali avrebbe potuto avere anche gravi conseguenze e gesti estremi nati dal dolore. I protagonisti dei più recenti fatti di cronaca, riportati proprio sulle colonne de La Nuova Periferia, sono ragazzi. Ragazzi sempre più giovani. Adolescenti, figli e nipoti della porta accanto, ragazzi e ragazze comuni. Per capire che cosa li spinga a percorrere certe scelte abbiamo coinvolto esperti che operano al loro fianco quotidianamente.

Baby gang, teppisti e giovani fragili: Settimo ora fa i conti con il disagio

A cominciare da Patrizia Camedda, psicoterapeuta e psicologa scolastica (o di comunità, come ama dire) nel quartiere Borgo Nuovo a Settimo Torinese . Una professionista che lavora a stretto contatto con un bacino d’utenza di 2.500 minori, offrendo un supporto anche e soprattutto all’interno degli istituti scolastici del territorio (Galileo Ferraris, Enaip ed Ic3), e di conseguenza alla comunità educante che vi ruota intorno.

Dottoressa Camedda, che cosa sta accadendo sul territorio e perché?

«C’è una maggiore fragilità tra gli adulti, e i ragazzi sono la cartina di tornasole di questa condizione. Se c’è una situazione di cui tenere il polso è la maggiore difficoltà degli adulti a tollerare loro stessi, le difficoltà e il proprio disagio. Di qui, lo sforzo di non far provare lo stesso dolore o la privazione ai propri figli, con uno stile educativo molto permissivo. E’ come se gli adulti non sapessero più costruire paletti, come se non volessero mettere dei limiti ai loro ragazzi per non vederli soffrire. I genitori d’oggi sono fragili nell’affrontare il fatto che i figli vadano incontro al dolore, seppure sia una condizione quotidiana, così i ragazzi non hanno gli anticorpi per affrontarlo. Non sono educati a perdere, a soffrire, a prendere un quattro, a non venire convocati in prima squadra. A livello sociologico, inoltre, non è chiara la differenza tra un atto sconveniente e un reato. Spesso mi ritrovo a spiegare ai ragazzi, ma anche ai loro genitori, che determinate azioni sono dei reati. Lo ignorano, come se le regole del vivere sociale si potessero anche non imparare. Come se fosse concesso andare fuori dalle righe. Basta guardare al “fenomeno” Fleximan, tutti coloro che per emulazione stanno abbattendo autovelox. Il problema è che non viene compresa l’importanza del rispetto del limite di velocità, e non ci si assume la responsabilità di pagare la multa quando si “sgarra” al rispetto della regola».

C’è stato quindi un incremento di prese in carico?

«Certo che sì. Direi esponenziale, grazie alla creazione di una rete di fiducia e dialogo creata con dirigenti scolastici, docenti, famiglie. Poi perché è caduto lo stigma verso la salute psichica. Se lo psicologo viene riconosciuto come membro della comunità si destruttura l'immagine dell'intervento psicologico come intervento "Per curare quelli che hanno problemi", e si apre l'accesso a una dimensione di conoscenza di sé».

E quale platea si è rivolta a lei? Che clima si respira a Settimo?

«Una platea molto variegata. Famiglie con fragilità, che hanno affrontato la malattia, il lutto, che vivono una povertà sotterranea e terrificante, ma che ricorrendo all’indebitamento comprano di tutto pur di non vivere nella povertà materiale. Al contempo ci sono anche situazioni più felici, più sane. Settimo è un’area davvero multisfaccettata, dove c’è molta povertà socio-economica e culturale. Essere periferia è la caratteristica di questa zona».

A questo punto, qual è a suo avviso la ricetta per venirne fuori?

«L’assunzione di responsabilità deve partire, anche qui, dagli adulti. Insegnare ad essere responsabili deriva dal sentirsi responsabili e dare l’esempio. Non intendo additare un colpevole, ma i bambini sono attenti scrutatori e hanno fame di vedere come si comportano gli adulti. Sono un anello fragile e accanirsi su di loro è una mancata assunzione di responsabilità da parte degli adulti. Inoltre, in un mondo giusto, le istituzioni metterebbero a disposizione più risorse per interventi di sistema, strutturati nelle scuole e nelle Asl. Per mettere in atto uno scambio costante tra tutti gli attori di una comunità, cioè scuola, famiglie, istituzioni, associazioni. Tutti impegnati in un patto di corresponsabilità con il fine comune del benessere delle persone».

La parola a don Luca Ramello

Per prevenire il disagio occorre coltivare le «buone relazioni». Parola di don Luca Ramello, parroco nella Città delle fragole, che parlando lo stesso linguaggio (quello digitale) dei ragazzi d’oggi è riuscito ad entrare in grande sintonia con il mondo giovanile. Tanto da radunare sotto al tetto dell’oratorio di San Benedetto 600 tra bambini e ragazzi, con lo scopo primario di intessere proprio quelle «buone relazioni».
«L’adolescenza è un’età difficile, delicata durante la quale l'immaturità si mescola alla scoperta delle prime responsabilità – fa un’analisi il don –. Non sempre gli adolescenti hanno una piena consapevolezza dei gesti compiuti e delle loro conseguenze. Si tratta di una categoria di ragazzi spesso annoiati, soli e che per questo percepiscono un senso di vuoto pungente, aggravato da un'incapacità di elaborare a livello psicologico, emotivo e spirituale la propria situazione».
E la “ricetta”, se così vogliamo chiamarla, per curare quel disagio «Sta la forza delle relazioni. In età adolescenziale si ha bisogno di venire coinvolti, e se questo non avviene si sfogano la propria energia, la rabbia e la noia in azioni pericolose, che possono fare danni anche molto grandi come nel caso delle violenze. Occorre fare prevenzione curando le buone relazioni. Questo non sempre avviene in famiglia, anzi, a volte è proprio la famiglia ad essere fonte di disagio. L'oratorio invece garantisce uno spazio per tutti e permette intergenerazionalità. Consente di coltivare le dinamiche tra pari e con gli adulti, a coinvolgere i ragazzi e a soddisfare le loro attese di divertimento, diventando un antidoto – conclude don Luca Ramello –. E se fossero i ragazzi che frequentano i nostri ambienti, a manifestare del disagio, tutta la comunità educante potrebbe interviene per non lasciarli soli».

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