Il racconto

La storia di una settimese: "Io, costretta a scegliere tra mio figlio e il lavoro..."

Una di quelle situazioni, purtroppo ancora molto frequenti, in cui licenziarsi sembra l'unica soluzione possibile

La storia di una settimese: "Io, costretta a scegliere tra mio figlio e il lavoro..."
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Una storia raccontata nel dettaglio dal settimanale La Nuova Periferia in edicola fino a lunedì 11 marzo.

Testimonianza

Quella che ci racconta Laura – nome di fantasia – è una storia che dovrebbe essere anacronistica e invece risulta più attuale che mai. E alla quale non a caso scegliamo di dare risalto oggi, Giornata internazionale della Donna.

Nel 2024, nonostante la tanto invocata parità di genere, succede ancora che una donna debba scegliere tra famiglia e lavoro. Succede chein certi casi rinunciare al proprio impiego sia l'unica possibilità.

"È il 2020 e ho un lavoro a tempo indeterminato: 9-18 dal lunedì al venerdì, con reperibilità - non pagata - praticamente fino a tarda sera. Un lavoro d’ufficio fisicamente molto “comodo” ma mentalmente stressante. A metà del 2020 scopro di essere incinta e penso subito di comunicarlo in azienda. Lunghi e sinceri abbracci con i miei capi di allora, tanti complimenti e auguri".

"I mesi trascorrono – prosegue -, la pancia cresce e a un certo punto i miei responsabili decidono di concedermi lo smart working. Il mio lavoro può essere svolto anche dall’altra parte del mondo, basta avere un pc e una connessione internet. Nel 2021 nasce il mio piccolo e al compimento del suo nono mese iniziamo a riflettere sulle modalità con cui sarei ritornata a lavorare. In quel preciso istante una neomamma può vivere emozioni contrastanti: la voglia di tornare alla vita di prima fatta di spazi per sé, la paura folle di cosa la aspetta, la sensazione di “abbandonare” il proprio figlio, di rompere gli equilibri raggiunti con tantissima fatica. E allora cerca di far combaciare quasi alla perfezione il bene della famiglia e la propria realizzazione personale. Proprio quello che ho fatto io. Avendo l’ufficio a un’ora e mezza di distanza da casa, ho davvero pensato che per me fosse impossibile conciliare un lavoro che mi obbligasse a stare fuori casa 12 ore al giorno e il bene di mio figlio (e anche il mio, perché non lo avrei visto crescere!). Quindi per prima cosa ho proposto una modifica al mio contratto che mi permettesse di lavorare da casa, non per forza tutti i giorni ma gran parte della settimana. Ero quasi sicura che mi sarebbero venuti incontro, e invece la risposta è stata subito negativa. 'Se lo concediamo a te dobbiamo concederlo anche agli altri', mi è stato detto".

Di contro, la donna ha proposto un part-time ma anche questa volta si è trovata di fronte un muro: "Ho perso un lavoro sicuro non perché qualcuno mi abbia licenziata, ma perché era l’unica soluzione per non sentirmi una madre sbagliata. Per l’impossibilità di pagare una tata per chissà quante ore al giorno. Per non affidare ad altri l’educazione di mio figlio. Mi sono licenziata, sì. Ho aperto la partita iva e ad oggi svolgo il mio lavoro da casa, con gli orari che decido io, riuscendo ad organizzare la mia vita lavorativa e a vedere crescere mio figlio senza sensi di colpa. Ma non ne ero pronta e sto faticando molto a trovare un ritmo, oltre a uno stipendio minimo per poter contribuire alle spese familiari".

Eppure, anche in questo ruolo, mi sono sentita rifiutata “per via della mia situazione”. Perché oggi avere dei figli rappresenta “una situazione” scomoda per molti datori di lavoro.

"A distanza di un anno da quella decisione non sono ancora riuscita a raccogliere dei buoni frutti. Sto seminando, arrancando. Mi sto scontrando con questa società che ci vuole a casa a cucinare e ad accudire i nostri figli. Zitte e buone. Noi donne, però – conclude -, abbiamo un fuoco dentro, un potenziale grandioso che nessun datore di lavoro ha il diritto di spegnere o denigrare".

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