Coronavirus, Figli di Don Bosco attivi per le popolazioni colpite dall'emergenza
Sono stati presenti in molte parti del mondo.
Coronavirus, Figli di Don Bosco attivi per le popolazioni colpite dall'emergenza.
Coronavirus
I Figli di Don Bosco, con la concretezza che li contraddistingue, si sono attivati in tutti i Paesi per sostenere le popolazioni colpite all’emergenza causata dal Covid-19, soprattutto nelle situazioni in cui i sistemi sanitari sono deboli, mancano medici e strumenti, le popolazioni sono già provate da altre malattie infettive oltre che dalla povertà e dalla fame.
In Africa, in America Latina e in Asia i missionari sono nelle baraccopoli, nei villaggi rurali, al fianco dei più svantaggiati, attraverso campagne di prevenzione, distribuzione di mascherine, sapone e disinfettante, soccorso alimentare e accoglienza.
Missioni Don Bosco è coinvolta nel sostegno ai salesiani che hanno attivato queste risposte. Con essi tiene una mappatura costante degli interventi, e li sostiene attraverso la fraternità che ha continuato a manifestarsi nonostante le perduranti preoccupazioni familiari e sociali che conosciamo in Italia.
Gli interventi
Il presidente di Missioni Don Bosco, Giampietro Pettenon, spiega gli interventi salesiani:
- – in Africa:
o Angola, Maximo David Herrera
o Benin, Hernan Cordero
o Rep Dem Congo, padre Mario Perez e don Albert
o Etiopia, padre Angelo Regazzo
o Liberia, Sony Plottyplackal
o Madagascar, don Bepi Miele
o Senegal, Carlos Berro
o Sierra Leone, padre Jorge Crisafulli - in America Latina:
o Argentina, i responsabili dell’ispettoria locale
o Brasile – Amazzonia, don Roberto Cappelletti
o Costarica, i responsabili dell’ispettoria locale
o Ecuador, i responsabili dell’ispettoria locale
o Messico, padre Ernesto Hernandez Ruiz (Ciudad Juarez)
o Venezuela, i responsabili dell’ispettoria locale - in Asia:
o Filippine, i responsabili dell’ispettoria locale
o India – Hyderabad, padre Thathi
o India – Mumba, don Rolvin D’Mello
o Sri Lanka, Prasad Kalaparthy
Paura per la violenza
C’è grande preoccupazione per la violenza che ha incominciato a manifestarsi dove le situazioni sono più fragili, e si possono purtroppo immaginare facilmente le conseguenze che deriveranno dalla disoccupazione di massa. La situazione si presenta poi come minaccia alla stessa sopravvivenza di alcuni popoli indigeni, come potrete leggere dalla testimonianza pervenutaci da una insegnante dell’Amazzonia:
L'arrivo del Coronavirus a São Gabriel, il municipio più indigeno del Brasile, era la cosa più temuta. Tutte le istituzioni si sono date da fare per proteggere il municipio (che ha una estensione uguale al Nord Italia) e la sua popolazione. Già dal primo momento sapevamo che non avevamo un ospedale per attendere alle richieste dei possibili contagiati di Covid-19.
Purtroppo non fu possibile fermare l´avanzata del virus; nonostante i decreti dello Stato di Amazzonia e del Municipio, che hanno chiuso la circolazione di barche, lance e aerei per passeggeri, non si è riusciti a contenere il virus, in quanto sono continuate ad arrivare persone clandestinamente, sia da Manaus, sia da tutto il Brasile. E proprio questi incoscienti hanno portato il virus in terra indigena.
Quando è uscita la notizia del primo caso positivo, molti hanno capito che la situazione poteva precipitare, mentre altri hanno continuato a fare file per le strade, davanti alle banche, per ricevere l´aiuto di emergenza del governo.
Io, particolarmente, ho vissuto il peggior momento della mia vita, perché ho visto amici e colleghi di lavoro sentendosi molto male, con difficoltà di respirazione. Uno di loro, un mio amico professore di 49 anni, non ce l´ha fatta, ed è morto dopo 5 giorni di coma in ospedale a Manaus.
Da quel momento, come professoressa e con nel cuore la voglia di mettermi a servizio per il bene del mio popolo e specialmente delle famiglie dei miei alunni, mi sono resa disponibile per andare per le strade della città di São Gabriel e nei villaggi più distanti, per aiutare in una campagna di sensibilizzazione contro il Covid-19. E a tutt´oggi continuo questa che sento come una missione importante. In tantissimi villaggi non c´è acqua, non c’è possibilità di distanziamento sociale e tanto meno di igienizzante o mascherine. Quello che fa più bene da un lato, ma che preoccupa dall´altro, è il modo di vivere dei più piccoli, i loro sorrisi, la loro poca attenzione a lavarsi… sono così, siamo così, siamo indigeni, siamo di questa terra, questo virus ce lo hanno portato da lontano e ora abbiamo paura. Sappiamo di avere difese immunitarie basse, di non avere possibilità di trovare un letto in ospedale… sappiamo che dobbiamo rimboccarci le maniche e lottare, a volte a mani nude, contro questo mostro invisibile. Dicono che sarà una ecatombe di morti qui da noi, io non ci voglio credere, voglio che io e i miei fratelli e sorelle Baniwa, Tukano, Tariano, Baré, Yanomami, Dessano, Hupda ci rendiamo conto che solo rispettando le regole di isolamento e di igiene potremo vincere questa battaglia. Non dimenticatevi di noi indigeni nelle vostre preghiere.